Louis-Jacques Mandé Daguerre continuò, dopo la morte di Niépce, le ricerche di entrambi sui supporti e sulle sostanze fotosensibili.
Nel 1835 scoprì che utilizzando lo ioduro d'argento come sostanza, una lastra di rame argentato come supporto e i vapori di mercurio come solvente l'immagine latente si rivelava anche solo dopo mezz'ora di posa.
Riducendo i tempi di sviluppo l'immagine poteva essere perfezionata fissandola con acqua calda e sale.
La prima immagine ottenuta con questo procedimento risale al 1837, il suo nome è Natura morta, ed è molto più particolareggiata sia sul piano delle sfumature del bianco e nero sia nella resa dei dettagli rispetto alle eliografie di Niépce.
Nel 1835 scoprì che utilizzando lo ioduro d'argento come sostanza, una lastra di rame argentato come supporto e i vapori di mercurio come solvente l'immagine latente si rivelava anche solo dopo mezz'ora di posa.
Riducendo i tempi di sviluppo l'immagine poteva essere perfezionata fissandola con acqua calda e sale.
La prima immagine ottenuta con questo procedimento risale al 1837, il suo nome è Natura morta, ed è molto più particolareggiata sia sul piano delle sfumature del bianco e nero sia nella resa dei dettagli rispetto alle eliografie di Niépce.
A Daguerre si deve anche la prima immagine fotografica ritraente una figura umana, Boulevard du temple del 1839.
Questa invenzione venne battezzata dagherrotipia, cancellando così tutti gli apporti fondamentali di Niépce.
Questa invenzione venne battezzata dagherrotipia, cancellando così tutti gli apporti fondamentali di Niépce.
Il 7 gennaio 1839 l'Académie des Sciences di Parigi annunciò ufficialmente la nascita della fotografia, e qualche mese dopo rese noto anche il procedimento del dagherrotipo, divenendo così la tecnica ufficiale dell'epoca.
Parallelamente in Inghilterra, anche il matematico e botanico William Henry Fox Talbot aveva ottenuto delle immagini a contatto. Talbot cambiò il supporto, al posto della lastra usò la carta; scoprì così il metodo negativo-positivo, superando il problema della copia unica.
Questa nuova tecnica, chiamata calotipia o talbotipia, consentì la tiratura di varie copie dell'immagine realizzata in camera oscura.
Nel 1840 Talbot scoprì anche l'immagine latente: se il foglio di carta veniva sviluppato con il gallonitrato d'argento, dopo pochi minuti di esposizione, sul foglio si disegnava un'immagine che poi poteva essere fissata con l'iposolfito di sodio.
Di lì a poco il dagherrotipo cadde progressivamente in disuso, lasciando spazio alla calotipia che divenne la tecnica dominante.
Sempre a Talbot dobbiamo l'introduzione all'interno dei libri delle prime immagini fotografiche. Il primo libro con testi illustrati risale al 1845 fu The pencil of Nature, ogni immagine era anche accompagnata da questa didascalia:
"Le tavole di quest'opera sono impresse soltanto dall'azione della luce, senza alcun aiuto della matita dell'artista. Sono immagini create dal sole e non, come alcuni hanno immaginato, incisioni imitative".
La calotipia è già culla di quel carattere automatico del processo produttivo e riproducibile del processo creativo; cioè inizia a sfatare quell'aura propria del prodotto artistico fino ad allora inteso. Abolisce quella sacralità, quell'isolamento, quell'esclusività sia in creazione sia in fruizione dell'oggetto artistico.
Precisiamo che la replicabilità calotipica è sicuramente rilevante da un punto di vista sociologico, lo è meno da un punto di vista ontologico, infatti sia il dagherrotipo, sia il calotipo sono tracce fotochimiche della realtà, per questo motivo sono entrambe un prodotto lontanissimo dal quadro pittorico.
Entrambe le tecniche presentavano già tutti gli elementi concettuali per distinguere la fotografia dalla pittura: l'essere una copia della realtà, l'idea di trasmettere la presenza in assenza, il potere evocativo della memoria, il desiderio del mantenimento nel tempo.
Man a mano continuarono le ricerche sulle sostanze fotosensibili e sulle carte, nel 1846 venne scoperto il collodio (miscela di alcol, etere e cotone fulminante) che a seconda delle necessità veniva usato umido o secco.
Il collodio umido ridusse drasticamente i tempi di posa da 20 a 2 minuti, il collodio secco unito all'albumina (collodio albuminato) permise l'uso della lastra sensibile anche dopo diverso tempo dalla preparazione mantenendo la stessa sensibilità.
Negli anni ottanta il collodio venne sostituito dalla gelatina-bromuro d'argento, che è utilizzata ancora oggi.
Gli esperimenti con le sostanze fotosensibili non si esauriscono qui.
Wedgwood sul finire del Settecento usò il nitrato d'argento insieme a supporti come carta e cuoio, non riuscì a fissare le immagini latenti rivelate per contatto, ma il suo intervento fu importante per la storia della fotografia perché fu il primo a realizzare i disegni fotogenici, cioè ottenuti in modo automatico e spontaneo per intervento diretto della luce del sole, e quindi fotograficamente.
Nella prima metà dell'Ottocento Talbot riuscì a rendere stabili le sue immagini a contatto realizzate tramite scampoli di pizzi, stoffe, foglie, piume.
Questa nuova tecnica, chiamata calotipia o talbotipia, consentì la tiratura di varie copie dell'immagine realizzata in camera oscura.
Nel 1840 Talbot scoprì anche l'immagine latente: se il foglio di carta veniva sviluppato con il gallonitrato d'argento, dopo pochi minuti di esposizione, sul foglio si disegnava un'immagine che poi poteva essere fissata con l'iposolfito di sodio.
Di lì a poco il dagherrotipo cadde progressivamente in disuso, lasciando spazio alla calotipia che divenne la tecnica dominante.
Sempre a Talbot dobbiamo l'introduzione all'interno dei libri delle prime immagini fotografiche. Il primo libro con testi illustrati risale al 1845 fu The pencil of Nature, ogni immagine era anche accompagnata da questa didascalia:
"Le tavole di quest'opera sono impresse soltanto dall'azione della luce, senza alcun aiuto della matita dell'artista. Sono immagini create dal sole e non, come alcuni hanno immaginato, incisioni imitative".
La calotipia è già culla di quel carattere automatico del processo produttivo e riproducibile del processo creativo; cioè inizia a sfatare quell'aura propria del prodotto artistico fino ad allora inteso. Abolisce quella sacralità, quell'isolamento, quell'esclusività sia in creazione sia in fruizione dell'oggetto artistico.
Precisiamo che la replicabilità calotipica è sicuramente rilevante da un punto di vista sociologico, lo è meno da un punto di vista ontologico, infatti sia il dagherrotipo, sia il calotipo sono tracce fotochimiche della realtà, per questo motivo sono entrambe un prodotto lontanissimo dal quadro pittorico.
Entrambe le tecniche presentavano già tutti gli elementi concettuali per distinguere la fotografia dalla pittura: l'essere una copia della realtà, l'idea di trasmettere la presenza in assenza, il potere evocativo della memoria, il desiderio del mantenimento nel tempo.
Man a mano continuarono le ricerche sulle sostanze fotosensibili e sulle carte, nel 1846 venne scoperto il collodio (miscela di alcol, etere e cotone fulminante) che a seconda delle necessità veniva usato umido o secco.
Il collodio umido ridusse drasticamente i tempi di posa da 20 a 2 minuti, il collodio secco unito all'albumina (collodio albuminato) permise l'uso della lastra sensibile anche dopo diverso tempo dalla preparazione mantenendo la stessa sensibilità.
Negli anni ottanta il collodio venne sostituito dalla gelatina-bromuro d'argento, che è utilizzata ancora oggi.
Gli esperimenti con le sostanze fotosensibili non si esauriscono qui.
Wedgwood sul finire del Settecento usò il nitrato d'argento insieme a supporti come carta e cuoio, non riuscì a fissare le immagini latenti rivelate per contatto, ma il suo intervento fu importante per la storia della fotografia perché fu il primo a realizzare i disegni fotogenici, cioè ottenuti in modo automatico e spontaneo per intervento diretto della luce del sole, e quindi fotograficamente.
Nella prima metà dell'Ottocento Talbot riuscì a rendere stabili le sue immagini a contatto realizzate tramite scampoli di pizzi, stoffe, foglie, piume.
Queste nuove immagini, ottenute solo usando la luce, senza utilizzare la macchina, prenderà il nome di cameraless photography.
Negli anni 20 Moholy-Nagy portò avanti questa ricerca grazie ai suoi fotogrammi, cioè immagini ormai astratte ottenute posizionando sul supporto sensibile degli oggetti.
Negli anni 20 Moholy-Nagy portò avanti questa ricerca grazie ai suoi fotogrammi, cioè immagini ormai astratte ottenute posizionando sul supporto sensibile degli oggetti.
C'est à cette époque (1920) qu'il crée des photogrammes sans caméra, sansconnaître les essais de Man Ray. Mais si pour ce dernier, ils sont une écriture automatique, pour Moholy la composition du photogramme est mûrement réfléchie. Chaque effet est calculé, rien n’est laissé au hasard. Son intention est d’abourtir à des formes et à des tonalités déterminées, allant du blanc au noir en passant par toutes les gammes des gris intermédiaires.(Freund 1974)
Il secondo portavoce è proprio Man Ray, che chiamò i suoi lavori rayogrammi.
Fotografia ottenuta per semplice interposizione dell’oggetto fra la carta sensibile e la fonte luminosa.
Colte nei momenti di distacco visivo, durante periodi di contatto emozionale , queste immagini sono ossidazioni di desideri fissati dalla luce e dalla chimica, organismi viventi.
Al di là dei nomi differenti, il “fotogramma” fu il mezzo ideale per la concretizzazione delle opportunità creative insite in una materia appena conquistata, le sostanze fotosensibili, con l’ausilio della luce, che divenne il nuovo mezzo creativo.
Il valore simbolico di queste creazioni era dato dal fatto che in precedenza le fotografie non si erano discostate di molto dai canoni espressivi tradizionali, in particolare da una funzione riproduttiva della natura regolata dalla teoria prospettica. Infatti, facevano prevalere nella ricerca creativa altri valori estetici, più plastici che epistemici.
Si ottennero delle rappresentazioni, che il nostro cervello rimodula e completa con l’aiuto del nostro bagaglio intellettuale, e attraverso un insieme di associazioni formali e spaziali che, infine, sfociano in una immagine concettuale e soggettiva.
Grazie a Moholy-Nagy e Man Ray, la visione iniziò ad emanciparsi dal retaggio visuale e culturale della rappresentazione tradizionale, la fotografia a discostarsi dai canoni pittorici e dalla rappresentazione fedele della realtà.
Fonti:
F. Muzzarelli, Le origini contemporanee della fotografia, Editrice Quinlan, Bologna, 2007
http://www.comuniclab.it/23761/la-fotografia-di-l-sl-moholy-nagy
Il valore simbolico di queste creazioni era dato dal fatto che in precedenza le fotografie non si erano discostate di molto dai canoni espressivi tradizionali, in particolare da una funzione riproduttiva della natura regolata dalla teoria prospettica. Infatti, facevano prevalere nella ricerca creativa altri valori estetici, più plastici che epistemici.
Si ottennero delle rappresentazioni, che il nostro cervello rimodula e completa con l’aiuto del nostro bagaglio intellettuale, e attraverso un insieme di associazioni formali e spaziali che, infine, sfociano in una immagine concettuale e soggettiva.
Grazie a Moholy-Nagy e Man Ray, la visione iniziò ad emanciparsi dal retaggio visuale e culturale della rappresentazione tradizionale, la fotografia a discostarsi dai canoni pittorici e dalla rappresentazione fedele della realtà.
Fonti:
F. Muzzarelli, Le origini contemporanee della fotografia, Editrice Quinlan, Bologna, 2007
http://www.comuniclab.it/23761/la-fotografia-di-l-sl-moholy-nagy